Conseguenze di inibizioni in età evolutiva studiate nella scimmia

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIV – 19 novembre 2016.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Lo studio dell’inibizione comportamentale dei bambini afferiva in passato all’ambito della ricerca sulle nevrosi infantili e, sebbene già l’allievo di Agostino Gemelli con una formazione da psichiatra psicoanalista, Leonardo Ancona[1], avesse studiato vari decenni fa presso il Massachusetts Institute of Technology (MIT) le reazioni alla separazione dalla madre nelle scimmie, fino ad epoche recenti vi è stata una notevole resistenza ad accettare l’impiego di tali studi comparativi per la comprensione del nucleo neurobiologico e comportamentale alla base delle manifestazioni psicologiche e psicopatologiche della nostra specie.

Attualmente due ricercatori californiani, Chun e Capitanio, che lavorano presso il California National Primate Research Center e presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università della California a Davis, sono impegnati in interessanti studi di comparazione che consentono loro di identificare una probabile radice funzionale comune nello schematismo essenziale della risposta del sistema nervoso di un primate a noi vicino, ma privo delle complicazioni derivanti dallo sviluppo della coscienza umana sotto l’influenza della comunicazione e della cognizione verbale.

 (Chun K., et al., Developmental consequences of behavioral inhibition: a model in rhesus monkeys (Macaca mulatta). Developmental Science 19 (6): 1035-1048, Nov. 2016).

La provenienza degli autori è la seguente: California National Primate Research Center (USA); Department of Psychology, University of California, Davis (USA).

Per molti decenni, nel Novecento, la psicologia e la psicopatologia dell’infanzia e dell’adolescenza sono state profondamente influenzate dalla teoria dello sviluppo libidico di Freud, dalle teorie di Piaget e dalla concezione imperante nella psicopatologia dell’adulto fondata su due grandi ordini di disturbi psichici, ossia nevrosi e psicosi. L’aver presente la triade freudiana inibizione, sintomo, angoscia, e l’impegno ad evitare esperienze traumatiche nella prima infanzia che avrebbero potuto alterare lo sviluppo psichico e causare nevrosi o addirittura psicosi nell’età adulta, hanno costituito una preoccupazione e un riferimento per generazioni di pedagoghi. In Europa, la pratica educativa in seno alla maggior parte delle famiglie dei ceti medi nella prima parte del secolo scorso era molto restrittiva e costellata di proibizioni e regole di comportamento, non solo per rispondere agli imperativi sociali, ma anche con l’intento di istillare una prudenza comportamentale che avrebbe evitato traumi derivanti da esperienze sociali negative.

Con l’affermarsi delle idee derivate dalla psicoanalisi e legate al rischio di una produzione di sintomi da parte dell’inconscio per effetto di conflitti fra le spinte pulsionali ispirate al principio di piacere (processo primario) e le responsabilità mediate dai valori simbolici dell’ordine sociale che richiamano al principio di realtà (processo secondario), la preoccupazione principale degli educatori è stata di non creare costrizioni traumatiche con una pedagogia comportamentale e didattica troppo rigida, esigente e tale da mortificare l’espressione dei desideri e perfino dei bisogni del bambino.

Un esperto di nevrosi infantili di quell’epoca, del calibro di Joseph B. Cramer, così si esprimeva in proposito: “L’aforisma di Freud «Non esiste nevrosi dell’adulto senza nevrosi infantile» deriva dal fatto che egli scopriva regolarmente sintomi infantili nel passato dei suoi malati adulti. […] Soltanto dopo la pubblicazione delle opere di Freud il termine nevrosi venne applicato ai bambini in senso descrittivo e concettuale. I casi clinici accuratamente descritti da Kraepelin costrinsero gli studiosi a porsi il problema della patogenesi”[2]. E poi: “Inizialmente Breuer e Freud considerarono le esperienze traumatiche la causa delle nevrosi. Essi ritenevano che tali esperienze avessero un valore intrinsecamente e categoricamente nocivo. Le esperienze traumatiche sono una componente essenziale senza la quale la malattia non si verifica, ma il trauma non è insito nella natura dell’evento. Così quel fatto, per quanto riguarda la causa, è ridotto quasi a parità con le qualità dell’organismo che rendono traumatico l’evento per quel bambino in quel dato momento, Pearson, dopo aver delineato quattro bisogni infantili fondamentali[3] e tre paure corollarie[4] a cui i bambini sono soggetti, afferma:

 

Tutto ciò che impedisce l’efficace soddisfazione dei bisogni psicologici del bambino o che aumenta le sue paure (…) avrà un effetto deleterio sullo sviluppo della personalità del bambino e potrà essere causa di malattia. Tale occorrenza è nota col termine tecnico di evento traumatico. Gli eventi traumatici possono essere raggruppati in tre categorie:

1) Eventi fatali e inevitabili.

2) Atteggiamenti sfavorevoli dei genitori.

3) Esposizione ad una stimolazione sessuale eccessiva e prematura.

 

È probabile che quest’ultimo fattore sia stato definito in modo un po’ troppo limitato, poiché sappiamo che una stimolazione prematura ed eccessiva anche non di natura sessuale può agire sul bambino come esperienza traumatica. Un evento traumatico può essere la causa diretta della nevrosi”[5].

Oggi, con le nuove conoscenze sullo sviluppo cerebrale e i progressi compiuti nell’ambito della psicologia dell’età evolutiva, la prospettiva è notevolmente cambiata e, anche se non tutti i mutamenti e le evoluzioni sono stati positivi, si è superata la tendenza ad un’interpretazione di esperienze e processi dell’età evolutiva fortemente influenzata dalla psicopatologia delle età successive. Non è difficile rendersi conto di tale tendenza, basti pensare che le tesi di Adler erano incentrate sui vissuti di inferiorità dei bambini, l’elaborazione teorica di Jung sui “complessi”, e l’opera di Rank, con la teoria del trauma della nascita, suggeriva una lettura dello sviluppo come percorso di sofferenze e frustrazioni.

Attualmente la timidezza e le varie forme di inibizione comportamentale di un bambino, peraltro sempre più rare perché rara è l’educazione autoritaria[6], non sono lette necessariamente quali sintomi di un disturbo psicopatologico e, anche se è bene che i clinici non si adagino su spiegazioni superficiali ed approfondiscano la conoscenza personale del singolo, si considera la possibilità che tali espressioni costituiscano una forma temporanea dello stile di relazione, modificabile mediante esperienze sociali positive.

Tanto premesso, numerose osservazioni confermano che i bambini esprimenti tali limitazioni psicogene all’interazione con l’ambiente e al rapporto interpersonale, da adulti sono più frequentemente soggetti a reazioni ansiose e depressive indotte da eventi stressanti e condizioni di vita poco gratificanti o frustranti. Nei bambini l’inibizione comportamentale è caratterizzata da una disposizione psicologica espressa come una tendenza a ritirarsi in presenza di estranei o nell’occasione di situazioni nuove. Nelle epoche successive della vita, coloro che da bambini hanno avuto tali tratti psicologici tendono ad avere penuria e povertà di relazioni sociali, a meno che queste non derivino da obblighi lavorativi o di altro genere ma ineludibili. A questa riduzione di vita interattiva si associa una più elevata probabilità di ammalarsi di depressione e di disturbi dello spettro dell’ansia.

Chun e Capitanio hanno selezionato esemplari di macaco rhesus (Macaca mulatta) che, durante l’infanzia, presentavano un’evidente inibizione comportamentale, quale conseguenza della separazione. Hanno associato queste scimmie, per contrasto, con altre di pari età non affette da inibizione. Per comprendere lo sviluppo di inibizione in età giovanile, i ricercatori hanno raccolto dati comportamentali nelle seguenti condizioni:

     1) in risposta alla rilocazione;

     2) in risposta all’impegnativa circostanza di un essere umano intruso;

     3) in un ambiente esterno naturale costituito dallo spazio di un recinto in un campo.

Quando le scimmie hanno raggiunto l’età di 4 anni – equivalente a quella del giovane adulto della specie umana – i ricercatori hanno nuovamente raccolto i dati, in particolare nel recinto del campo, per cercare di verificare le conseguenze sulla socialità in età adulta dell’inibizione comportamentale dell’infanzia. Nelle analisi comportamentali sono stati inclusi il sesso, il rango di dominanza e il numero di parenti disponibile. Infine, per analizzare la coerenza di comportamento degli animali inibiti, Chun e Capitanio hanno condotto analisi esplorative contrastando le scimmie inibite nel comportamento che presentavano da adulte un’alta durata, rispetto alla bassa dei macachi non inibiti, di attività non sociali.

In età giovanile, i macachi inibiti nel comportamento continuavano ad evidenziare differenze nella nuova sala dei test e durante la prova dell’intruso umano, generalmente manifestando evidenze di uno stato maggiormente ansioso ed emotivo, al confronto con i controlli non inibiti. Nei loro recinti in campo aperto, i giovani inibiti trascorrevano più tempo da soli e meno tempo in prossimità o nell’attività di grooming con la madre ed altre femmine adulte.

All’età di giovani adulti, i ricercatori hanno rilevato che l’inibizione non era correlata al tempo trascorso da soli. Invece, il tempo trascorso da soli in età adulta era in stretto rapporto con il tempo vissuto in solitudine in età giovanile. Il sesso, il rango di dominanza o il numero di parenti non influivano nella durata del tempo trascorso in attività non sociali nella vita adulta, sia come effetti principali sia come moderatori.

Infine, le analisi esplorative hanno rivelato che le femmine inibite nel comportamento che da adulte apparivano più socievoli (minor tempo trascorso da sole), da giovani avevano trascorso più tempo a spulciare il pelo di altre scimmie nel grooming. Tale osservazione suggerisce che un’elevata qualità di interazione sociale in età giovanile possa mitigare le conseguenze sociali dell’inibizione infantile.

Ma i numerosi elementi e spunti rilevati dai ricercatori e riportati nel loro articolo, che definiscono molti aspetti della realtà di questa esperienza, meritano di essere letti integralmente e valutati attentamente, perché possono essere utili alla riflessione su condizioni umane equivalenti e allo sviluppo di nuovi esperimenti con questi stimolanti modelli.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-19 novembre 2016

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Leonardo Ancona, con vari altri esponenti del mondo accademico e della ricerca neurologica e psichiatrica fondò la Società Italiana per la Ricerca Psicodiagnostica (SIRP) della quale fece parte il nostro attuale presidente fin dal convegno di fondazione. La SIRP varò il primo tentativo di sintesi finalizzata alla diagnosi fra conoscenza neuroscientifica e sapere psicologico nel nostro paese.

[2] Joseph B. Cramer, Le Nevrosi Infantili, in Silvano Arieti, Manuale di Psichiatria (in 3 volumi), Vol. II, p. 800, Boringhieri, Torino 1987. Si ricorda: Anna Freud modificò la tecnica della ricerca psicoanalitica sviluppando un metodo adatto allo studio delle nevrosi infantili; Melanie Klein elaborò un metodo basato sull’interpretazione del gioco infantile.

[3] G. H. J. Pearson, Emotional Disorders of Children. Norton, New York 1949. I 4 bisogni delineati in quest’opera sono in sintesi: 1) sicurezza e sostegno dei due genitori attraverso la loro presenza; 2) affetto e comprensione da parte dei genitori; 3) un periodo di gratificazione dei bisogni sessuali infantili; 4) possibilità di esprimere ostilità, antagonismo e aggressività per conoscere ed affrontare questi stati d’animo.

[4] 1) paura di essere abbandonato; 2) paura di non essere amato; 3) paura di essere mutilato (permane l’influenza freudiana della paura di castrazione), cfr. G. H. J. Pearson, op. cit.

[5] Joseph B. Cramer, Le Nevrosi Infantili, op. cit., pp. 804-805.

[6] Nella realtà umana, l’educazione autoritaria e il timore nei rapporti interpersonali e sociali di essere giudicati e puniti, criticati, derisi od oltraggiati sono una causa più frequente di inibizione della separazione dalla madre.